[…] ecclesiam Sancti Torpetis martiris,

que est sita in comitatu Forojuliense in territorio

quod vocatur Fraxinito, iuxta mare […]

(Cartulaire de l’Abbaye de S.Victor de Marseille, carta n.595 dell’anno 1056)



Fraxinetum Saracenorum

All’alba d’un giorno d’estate dell’anno 889, la pacifica gente del villaggio che sorgeva all’imboccatura del Sinus Sambracitanus, ove adesso è l’abitato di Saint Tropez, ebbe l’amara sorpresa di avvistare un piccolo convoglio di navi saracene che si stava dirigendo verso terra. Gettata l’ancora nelle placide acque della baia, un manipolo di musulmani, armati sino ai denti, si apprestava a piombare sulle loro case. In preda al terrore, gli abitanti, radunatisi nella minuscola chiesa, presero le reliquie del Santo patrono, gli arredi sacri, e fuggirono con le fanciulle e i bambini verso le vicine montagne. I saraceni, dopo avere saccheggiato il villaggio, raggiunsero i borghi sparsi sulle pendici di quei colli e uccisero quasi tutti gli abitanti. Divenuti ben presto padroni dell’intero territorio circostante, i musulmani si stanziarono stabilmente in quelle località che Ibn Hawqal, un mercante di Baghdad gran viaggiatore, a cui dobbiamo interessanti descrizioni della realtà geografica conosciuta nella seconda metà del X secolo, così descriveva:

Il Ğabal ′al qalâl era deserto da lunga età, ma aveva acque, buone terre, culture e seminati da fornire sussistenza a chi vi riparasse. Capitatavi una man di musulmani, presero ad abitarlo e vi si mantennero a fronte de′ Franchi, i quali, atteso la fortezza del luogo, non poterono nulla contro di essi.”

I Saraceni crearono qui una sorta di ‘testa di ponte’, una comoda base stabile da cui irradiarsi per le scorrerie e in cui raccogliere le prede destinate ai possedimenti di Spagna. Le cronache latine dell’epoca designano il loro insediamento con il nome di Fraxinetum Saracenorum. Si tratta, con tutta probabilità, del castrum di La Garde Freinet, al limite settentrionale dell’insenatura, posto al colmo di un rilievo roccioso difeso da una densissima spinarum silva che domina le placide acque dell’ampia baia naturale alla cui estremità è ubicato attualmente l’abitato di Saint Tropez. Diedero inizio a sistematiche incursioni nel territorio tra il Rodano e le Alpi e sulle coste provenzali e liguri. Saccheggiarono la Riviera di Ponente, l’ Appennino e l'Oltregiogo padano, e depredarono i territori di Aqui, Alba e dell'alto Tortonese. Raggiunsero poi ai passi alpini, li traversarono, devastando il territorio italico e si spinsero fino alla Svizzera, dove assalirono il monastero di S. Gallo.

Una prima spedizione punitiva operata nell’anno 932 dalla flotta bizantina che incrociava nelle acque della Sardegna e della Corsica, si limitò a distruggere le navi dei Mori alla fonda nell’insenatura prospiciente il Fassineto, senza peraltro attaccare i loro covi in terraferma. Deciso a porre fine alle continue scorrerie e alle rapine, il re Ugo di Provenza, dieci anni più tardi, chiamata in aiuto la flotta bizantina sferrò un poderoso attacco costringendo i Saraceni a fuggire sul monte Mauro (omnes in Montem Maurum fugere compulit). Era ormai sul punto di annientarli quando ebbe notizia che Berengario, Marchese d’Ivrea, aveva raccolto un esercito e si apprestava a scendere in Italia. Per paura di perdere il regno, interruppe le operazioni militari, licenziò la flotta greca e stipulò un vero e proprio patto di alleanza con i Saraceni perché impedissero il transito alle truppe del rivale attraverso i valichi alpini. Oltre a determinare la ripresa delle incursioni e dei saccheggi, quel patto scellerato fece assumere un nuovo ruolo ai Saraceni nei confronti delle forze politiche dell’occidente europeo.

Grazie al consenso dei feudatari cristiani, accecati dalla sete di potere e dalle reciproche gelosie, essi si attestano sui valichi alpini e di là controllano il passaggio dei pellegrini ed impongono i loro balzelli. Da allora nessuno poteva transitare per andare a Roma a pregare sulle tombe dei beatissimi apostoli, senza che fosse preso dai Mori o lasciato libero col pagamento di un forte riscatto. Il cronista Frodoardo, vissuto nella prima metà del secolo X, in più passi dei suoi Annales Rhemenses ricorda la presenza dei Saraceni sulle Alpi. Una presenza che, col passare degli anni, secondo le parole del cronista, non sembra più dedita a depredare e massacrare i malcapitati, ma piuttosto a riscuotere dai pellegrini una sorta di pedaggio (a viatoribus Romam petentibus tributum accipiunt, et sic eos transire permittunt).

Il segnale per la “crociata” che avrebbe portato alla distruzione del covo di Frassineto fu determinato dalla cattura di S.Maiolo, abate di Cluny, al passo del Gran S.Bernardo, mentre faceva ritorno alla sua abbazia, nell’anno 972. Caduto in un’imboscata tesagli dai Saraceni in prossimità del ponte di Orcières, l’abate era stato ferito e condotto prigioniero fra le gole alpine. Dopo un mese di prigionia, con grande sollievo per l’intera cristianità, era stato liberato dietro pagamento del favoloso riscatto di mille libbre d’argento. Rodolfo il Glabro racconta l’episodio con dovizia di particolari

Avvenne allora che il beato padre Maiolo, di ritorno dall’Italia, incontrasse questi Saraceni in una stretta gola delle Alpi. Essi lo catturarono e lo trascinarono via con tutto il suo seguito in una zona impervia (ad remotiora montis); per giunta il Padre aveva una seria ferita a una mano per avere con questa fermato volontariamente un colpo di lancia diretto ad uno dei suoi. Dopo essersi spartiti tutti i suoi averi, gli chiesero se in patria disponeva di ricchezze sufficienti per procurare a sé e ai suoi il riscatto della prigionia. L’uomo di Dio, che con tuto il suo prestigio era persona di grande affabilità (erat totius affabilitatis), rispose che lui non aveva nulla di suo a questo mondo, e non intendeva divenire proprietario di beni materiali; ma non negò che sotto di lui vi fossero parecchie persone che risultavano in possesso di vaste proprietà e di molte ricchezze (amplorum fundorum et pecuniarum domini). Gli ingiunsero allora di mandare uno dei suoi compagni a ritirare il denaro per il suo riscatto; e ne stabilirono l’ammontare, precisandone il peso e la quantità: mille libre d’argento, di modo che a ciascuno di loro sarebbe toccata nella divisione una libbra.” (Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno mille, a cura di G.Cavallo e G.Orlandi, Milano, 1999, p.25).

L’affronto subito dall’abate Maiolo suscitò un vasto movimento di sdegno e indusse i principi cristiani ad intraprendere, fra il 975 e il 980, una campagna d’armi condotta dal conte Guglielmo d’Arles collegato con tutta la nobiltà di Provenza e di Liguria. L’ultimo a cadere fu l’oppidum di La Garde Freinet, ma non già in seguito ad uno scontro armato fra gli opposti schieramenti, ma ad opera di un inganno. La Cronaca di Novalesa narra con dovizia di particolari il singolare episodio, accaduto al tempo in cui gli uomini del conte Rotbaldo e di Arduino il Glabro assediavano i Mori del Frassineto.

Nel tempo in cui i predoni stavano al Frassineto e si spingevano ovunque a portar saccheggi e razzie era con loro un tale di nome Aimone. Costui una volta uscì con gli altri per devastare i campi, per rubare tesori, cavalli, bovini ed altre cose, e per rapire giovani donne e fanciulli. Avvenne che nella distribuzione del bottino era toccata in sorte ad Aimone una bellissima fanciulla. Ma, sorta per essa una contestazione con altri pretendenti, sopravvenne uno dei capi saraceni che gli tolse la fanciulla; egli umiliato restò escluso. Volendo Dio finalmente liberare il popolo cristiano, si fissò talmente nel cuore di Aimone, sì da indurlo a tradire quel luogo e gli uomini in esso dimoranti. Si portò difatti Aimone presso il conte Rotbaldo al quale disse: <<Ecco, vi metto nelle mani i vostri nemici, solo capaci di nequizie>>. Rotbaldo meravigliato gli rispose che, se ciò avesse fatto, lo avrebbe ricompensato. Ordinò a tutti i suoi guerrieri e ad Arduino di mettersi a disposizione del Saracino per aiutarlo in una certa impresa. Tutti accorsero e seguirono Aimone.“

Fu così che, a causa di una donna e per il tradimento di Aimone, che aprì le porte della rocca, le forze degli assedianti poterono irrompere sui Saraceni facendo strage dei difensori.

Tornata la vita alla normalità, il ricordo dei Saraceni e delle loro gesta passò alla leggenda, per tramandare racconti di rapine, di gente inerme terrorizzata, di accordi segreti con i fomentatori di disordini e di guerre civili, di unioni scellerate con bande di briganti e grassatori. La costa dell’alto Tirreno ed i paesi del suo interno furono liberati dall’incubo delle devastazioni. Molti di quegli abitanti che avevano cercato rifugio dalle scorrerie nelle gole nascoste o sui picchi impervi dei rilievi montuosi, ridiscesero verso la costa e le vallate e nei borghi abbandonati la vita riprese faticosamente il suo corso.

Gli abitanti di Saint Tropez, in particolare, riconsacrata la loro chiesa, vi ricollocarono le reliquie di San Torpete, martire al tempo di Nerone, del quale ci è giunta una Passio, composta nel VI o all'inizio del VII secolo. Gli Atti del martirio di S. Torpete, ad opera dei Bollandisti, che attestano la devozione per il santo pisano già dal IX secolo, e il Martirologio Romano, che contiene l’Elogio del santo martire, costituiscono le uniche scarse fonti sulla figura di Torpete. Il Santo, giunto a Pisa al seguito dell'imperatore, incarcerato per la sua fede, fu sottoposto a numerose torture, dalle quali uscì indenne, finché non venne decapitato nell’anno 68.

Passio Sancti Torpetis, in Acta Sanctorum, Maii, IV, […] Hoc vobis praeceptum ut in Gradu ad mare ibidem decolletur. Et venerunt in Gradum Arnensem: exierunt ripam fluminis. S. Torpes dixit: “Dominus Deus meus,suscipe spiritum meum”. Nihil aliud dixit, nisi oculos levavit in caelum, et sic decollatus est. Ministri autem invenerunt naviculam modicam foris, quae iam nullam utilitatem facere poterat […] et miserunt in ea corpus Iusti et canem et gallum cum eo: et tam diu ibidem steterunt, dum eam non viderent.

Il corpo del martire fu abbandonato su una barca, alla foce dell’Arno, insieme con un cane ed un gallo che avrebbero dovuto cibarsi del suo cadavere. Spinta dalle correnti, la barca approdò sulle coste provenzali, ove fu eretta una chiesa attorno alla quale sorse borgo che ancor oggi porta il suo nome. Il culto di San Torpete fu importato a Genova dai mercanti pisani che eressero in suo onore una chiesa nella piazza del mercato, non lontana dalla loggia che i Pisani possedevano nell’area curiale dei Della Volta. La chiesa primitiva , distrutta dal bombardamento francese del 1684, risaliva almeno al XII secolo, e di essa è traccia anche negli atti dei notai genovesi. Divenne quindi chiesa gentilizia della nobile famiglia dei Cattaneo, alla quale è tuttora affidato il giuspatronato. Nel 1290 sulla facciata di questa chiesa, furono esposti alcuni anelli della catena del porto pisano, portati a Genova come trofeo dalla flotta di Corrado Doria che aveva forzato il porto della città rivale. L’erudito Luigi Tomaso Belgrano ricorda con orgoglio i forti legami esistenti con la comunità genovese:

Nell'anno 1470 Giovanni Cossa, luogotenente generale del re Renato in Provenza, concedette in feudo a Raffaello da Garessio la signoria del luogo di Saint-Tropez, allora deserto; ed il Garessio vi condusse dalla riviera ligustica ben sessanta famiglie, le quali edificaronvi il presente borgo ed una nuova chiesa in onore di quel santo. L'origine adunque della moderna città di Saint-Tropez è cosa nostra; ed i suoi abitatori, con nobile compiacenza, ricordano tuttora i vincoli onde sono a noi collegati. Ne è prova la Società delle regate, ivi costituitasi nel 1862; la quale fondandosi appunto su questi legami, chiedeva per mezzo del Maire al nostro Municipio il dono di due stendardi, l'uno divisato ai colori nazionali e l'altro ornato della temuta croce dell'antica Repubblica Genovese, da distribuirsi in premio a coloro che avessero trionfato nelle solenni corse del 18 maggio 1864. Il Municipio assentiva di buon grado alla domanda; e spediva a Saint-Tropez due superbi vessilli, i quali venivano accolti da que' cittadini col più vivo trasporto, in mezzo alle grida di evviva alla Metropoli della Liguria.” (L.T.Belgrano, Della vita privata dei Genovesi, Genova 1875, p.48, n.3)